Quando ho lavorato con i Nativi Americani a Yellowstone

da Mag 22, 2019Racconti di viaggio, USA0 commenti

Hannah e i Nativi Americani

Ho incontrato Hannah (nome di fantasia) quando lavoravo a Yellowstone. Uno degli aspetti incredibili degli Stati Uniti è la multi-etnicità dei volti, avevo spesso difficoltà a indovinare le origini delle persone con cui parlavo. Che poi aveva importanza? No ovviamente, era solo la mia curiosità. Hannah era una di quelle ragazze di cui non avevo assolutamente idea da dove arrivasse. Aveva la pelle scura, leggermente più scura della mia, quasi mediterranea. I capelli chiari (tinti) e degli occhi dal taglio allungato, dorati e verdi.

Un giorno, dopo qualche settimana della mia esperienza nel Parco, abbiamo condiviso un turno (spesso nel primo mese, capitava di lavorare in coppia nel rassetto delle camere). Nel corso della mattinata, ad un tratto, un bisonte è apparso accanto al nostro bungalow (una circostanza molto frequente, come avrei scoperto con il passare delle settimane). Lei mi ha sorriso e mi ha detto che “per la mia gente i bisonti sono sacri”. Io ero ancora agli inizi della mia avventura, non capivo ancora benissimo lo slang inglese e ho risposto con un classico “ah davvero?” (che era una risposta neutra e perfetta), ma ero convinta di non aver compreso esattamente di cosa si stesse parlando. “La mia gente?”, ma che significava? Poi ho realizzato che sì eravamo a Yellowstone, c’erano i bisonti e le uniche reminiscenze dei film western insegnavano che i bisonti erano sacri solo per i Nativi Americani. E soprattutto il cognome di Hannah era “RedHowl” (Gufo Rosso). Mi sono girata sorpresa verso di lei e le ho chiesto se fosse davvero una Nativa e lei mi ha risposto che arrivava dalla riserva del South Dakota e che era venuta a lavorare lì in Wyoming insieme al suo ragazzo e ad altri due suoi amici. Il ragazzo in questione era un bel ragazzo tatuato di cui comprendevo solo il 30% di quello che diceva, perennemente incazzato (non arrabbiato, proprio incazzato). Non ricordo più il suo nome (lo chiameremo per praticità Steve), ma all’inizio (sempre per la mia incapacità di indovinare le etnie), ero convinta fosse sudamericano (sarà stato il taglio allungato degli occhi).

Quando ho fatto amicizia con Hannah e Steve ho scoperto che discendevano dai Sioux (uno infatti dei tatuaggi enormi che lui aveva sul braccio rappresentava proprio quella tribù). Mi sembrava incredibile di parlare con dei discendenti di una cultura millenaria come quella; poi con il passare delle settimane, ho realizzato che la questione fosse molto più complessa.

I problemi dentro le Riserve Americane

Hannah e Steve arrivavano da una delle riserve del South Dakota, dei posti che tendenzialmente non è che ispirino proprio una visita. Negli Stati Uniti ci sono riserve indiane visitabili che possono essere parte di un tour, anche se basta essere consapevoli che sono appunto attrazioni turistiche (utili comunque per finanziare le comunità locali). Questo spiega la rabbia endemica che si mangiava Steve. Steve e i suoi amici, infatti, erano arrabbiati con il governo degli Stati Uniti, con la loro condizione di Nativi dentro una riserva, con la loro povertà e marginalità dalla società americana. Pensate a dei ragazzi di 22 anni senza molte prospettive per il futuro a meno che non emigrino da qualche altre parte [spoiler: Hannah avrebbe poi litigato a fine mese con un ranger e sarebbe stata licenziata da Yellowstone: la loro avventura fuori dalla Riserva si sarebbe insomma conclusa abbastanza presto].

Il tasso di alcolismo e di criminalità in molte di queste riserve è altissimo, così come il problema dei femminicidi: nel 2016, 5176 donne native sono scomparse. Dopo un efferato omicidio avvenuto in North Dakota, nel 2018 è stata proposta la legge (non ancora approvata), “Savanna’s Act” che porta il nome della ragazza uccisa, e che dovrebbe aiutare a creare un coordinamento fra le leggi federali, statali e delle riserve per contrastare i crimini contro le donne. Infatti nelle riserve esistono delle leggi speciali e spesso questo contrasta e rallenta l’intervento della polizia statale o federale.

I Nativi Americani e Buffalo Bill

Gli altri Nativi Americani che lavoravano nel Parco di Yellowstone, esclusi i ragazzi più giovani, erano signori e signore di mezza età che erano perennemente ubriachi dopo i turni di lavoro. Insomma, una situazione di disagio costante. A Yellowstone infatti lavoravano quattro categorie di persone: 1) gli studenti e i giovani (americani e stranieri come me); 2) quelli che volevano staccare dalla vita cittadina e prendersi una pausa nella natura e nel lavoro manuale; 3) quelli che volevano vivere la vita in modalità “free”, senza costrizioni e limitazioni imposte dalla società; 4) gli emarginati. E gli emarginati in quel contesto erano ex galeotti che evidentemente non riuscivano ad essere assunti da altre parti e i Nativi americani.

La questione dei Nativi negli Stati Uniti è insomma molto complessa e con molte aree di luci e ombra. Nella città di Cody (un’oretta circa a est del parco di Yellowstone), che ha dato i natali al famoso Buffalo Bill (nome d’arte del Sig. Cody appunto), c’è un interessantissimo museo interattivo, “Bufalo Bill Center of the West”, dedicato sia alla figura di Buffalo Bill sia alla storia dei Nativi Americani di quell’area. Merita una visita.

Vuoi approfondire?

Ci sono svariati film sulla tematica dei Nativi Americani: dai classici come “Balla con i Lupi” (Kevin Costner, 1990) e “L’ultimo dei Mohicani” (Michael Mann, 1992), a film più recenti come “The new world – Il nuovo mondo” (Terrence Malick, 2006).

Segnalo anche due film sulla condizione odierna dei Nativi Americani: “Wind river” della regista Taylor Sheridan (finalmente una donna!), un thriller che si svolge in una riserva del Wyoming e “Land” di Babak Jalali, presentato agli ultimi Festival di Berlino e Torino.

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